Reshoring, ok. Ma quando parliamo della valorizzazione economica dei lavoratori?

Reshoring, ok. Ma quando parliamo della valorizzazione economica dei lavoratori?

Quelli che parlano bene lo chiamano ‘reshoring’. Si tratta della scelta volontaria, attuata da un’azienda, di spostare in tutto o in parte le proprie attività produttive, o le forniture, in un Paese diverso rispetto a quello in cui le stesse erano state precedentemente delocalizzate.
La parola inglese è di tendenza, ma forse spiegata in italiano rende meglio.
Stiamo parlando di una sorta di ‘controesodo imprenditoriale’: chi è andato via negli anni passati sull’onda di una malintesa globalizzazione adesso fa ritorno perché qualità e risparmio (su tutto, soprattutto sul costo del lavoro e dei lavoratori) non sempre coincidono, anzi…
Anche il Salento è interessato a questa ‘imprenditoria di rientro’ vocata al mercato del lusso che dà molte soddisfazioni, specialmente nel settore del tessile-abbigliamento-calzaturiero. Tutto bello, tutto giusto…purchè non si prescinda dal principio cardine: il reshoring è strategico solo e soltanto perché sono i lavoratori, la loro professionalità, la loro artigianalità, la loro storia, la loro cultura del lavoro a renderlo possibile con il vero e unico valore aggiunto. Questo è il tanto decantato “made in Italy” del manifatturiero, non altro.
Invece di lavoratori e retribuzioni non ne parla nessuno. Le imprese rientrerebbero perché attratte dal sacro fuoco dell’ambiente sostenibile, perché non ne possono più dello sfruttamento minorile, perché hanno voglia di adottare i tanto decantati codici etici (alla prova dei fatti poi sconosciuti…), perché hanno scelto di investire su tecniche e tecnologie per l’antinquinamento e cose simili…
Disquisizioni interessanti per dibattiti accademici.
Delle retribuzioni, dei lavoratori, dei prezzi riconosciuti (bassissimi e con gli…sconti), delle filiere interminabili dove le aziende commerciali intermedie lucrano fino all’80% a danno di produttori e dei lavoratori finali, invece, non ne parla volutamente nessuno.
Il costo del lavoro? Dopo la pandemia è ridiventato un ‘NON PROBLEMA’. I marchi della moda del lusso (dal più grande al più piccolo) hanno “mollato” sui controlli e sulle verifiche (gli audit sono ridiventati solo “documenti da mettere in ordine”) e sono rifioriti i contratti pirata (quello Cisal fino al 40% in meno di RAL), i part time falsi e i vari escamotage a danno del salario e delle condizioni lavorative.
Le nostre maestranze hanno un valore aggiunto per la “flessibilità operativa” e per la capacità di “problem solving”. Verissimo! Ma come mai quando un gruppo importante come Florence ha acquistato una grande e consolidata azienda salentina con una filiera di almeno 20/25 laboratori (600/700 lavoratori), a solo 1 anno dell’acquisto, ha tagliato della metà i laboratori con una politica dei prezzi (a detta degli imprenditori) alquanto discutibile?
E che dire della concezione/interpretazione del reshoring da parte dei grandi marchi della moda (tutti!) che propongono rientro di grosse produzioni di abiti e calzature ma con i prezzi di Cina, Albania, Tunisia, Algeria, Bangladesh….?
Parliamo di abiti di qualche migliaia di euro in boutique…ma pagati dai 30 ai 50 euro. Parliamo di calzature di quasi 1000 euro (se non di più) in boutique…ma pagati (al vero produttore, dopo una lunga filiera generata e tollerata dagli stessi marchi) dai 22 ai 35 euro.
I grandi marchi della moda e del “Sistema Moda Italia” (SMI) devono fare chiarezza, non possono continuare a sbracciarsi per difendere contemporaneamente lo sfruttatore e lo sfruttato. Serve una scelta di campo, in nome della qualità, dei profitti legittimi e dei lavoratori. Altrimenti stiamo facendo accademia, sulle spalle e a danno del lavoro. Quello vero.

Sergio Calò
Segretario Generale
Femca Cisl Lecce

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